La tecnologia blockchain è sempre più al centro dell’attenzione degli operatori economici. È dunque molto probabile che le criptovalute – “monete virtuali” basate su questa tecnologia – rivestiranno un ruolo sempre più importante nel futuro. Ne è prova concreta il trend in forte crescita delle società, che stanno investendo nella cripto-economy, nonostante le difficoltà legate all’assenza di una vera e propria regolamentazione organica in materia. Facciamo il punto della legislazione fiscale ad oggi applicabile a tale fattispecie.

1. Premessa

Possono essere oggetto di analisi fiscale le:

  • operazioni commerciali tradizionali (anche nella forma dell’e-commerceregolate da bitcoin e
  • le operazioni su bitcoin.

Nel primo caso non si riscontrano particolari problematiche, dal momento che, da un punto di vista valutario, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali sono allo stato da ritenersi attività lecite e non si rinvengono particolari preclusioni da un punto di vista tributario, se non quelle derivanti dall’applicazione del regime fiscale ordinario, che presuppone ovviamente che le operazioni siano rappresentate in valute aventi corso legale (e dunque in euro).

Per il secondo tipo di operazioni, la disamina va sicuramente approfondita.

2. Le criptovalute assimilabili a “valute estere”

Le criptovalute sono assimilabili, dal punto di vista fiscale, a valute estere (risoluzione 2 settembre 2016, n. 72/E).

Va detto che, in materia fiscale, il legislatore non è ancora intervenuto con norme ad hoc, motivo per il quale l’interprete non può non prendere come punto di riferimento gli unici chiarimenti di prassi, che, nella sostanza, operano un’equiparazione tra bitcoin e moneta legale.

Essendo assimilate alle valute estere, devono essere, al termine di ogni esercizio, valutate a valore normale, cioè al “valore corrispondente alla quotazione degli stessi bitcoin al termine dell’esercizio”.

Tale posizione è valida per la specifica tipologia di società a cui la risoluzione si rivolge, dunque alle società che svolgono attività di acquisto/vendita a pronti di criptovalute per conto della clientela (i cosiddetti “exchanger”), mentre non è adeguata alle società che investono in criptovalute per finalità diverse, ad esempio per supportare progetti di “initial coin offering” (cd. ICO), cioè emissioni di “token” volti a sostenere, in un orizzonte di medio-lungo periodo, progetti basati sulla tecnologia blockchain.

2.1. Disciplina fiscale delle cd. ICO (“initial coin offering”)

Le “ICO” ormai costituiscono una modalità usata nella prassi commerciale digitale per finanziare delle start up, che intendono realizzare un progetto che si basa sulla tecnologia blockchain.

Le offerte al pubblico di “token digitali”, che conferiscono al possessore finanziatore il diritto di ottenere beni o servizi dall’emittente e di scambiarli in criptovalute, sono state oggetto di analisi nella risposta all’interpello 28 settembre 2018, n. 14.

Viene fatta una differenziazione tra:

  • security token”, considerati rappresentativi di diritti economici connessi all’andamento dell’iniziativa imprenditoriale;
  • utility token”, rappresentativi di servizi dell’emittente o di un possibile scambio sul mercato secondario della piattaforma dell’emittente o su altre piattaforme presenti sul mercato digitale. Questi token potrebbero essere, quindi, ceduti a terzi, ricevendo in cambio valuta virtuale o valuta legale, quindi monete correnti come euro o dollari.

L’Agenzia entrate ha chiarito che la non rilevanza ai fini IVA della cessione dei cd. “utility token, in quanto assimilabili ai voucher, la cui rilevanza fiscale si manifesta solo al momento dell’utilizzo, quindi all’acquisto del bene o del servizio di cui lo stesso voucher è rappresentativo.

Anche la cessione o il cambio dell’utility token in criptovaluta e dalla stessa in valuta corrente sarebbe esente IVA secondo l’Agenzia (risoluzione n. 72/E del 2016) e la Corte UE (sent. 22 ottobre 2015, causa C-264/14).

La corretta qualificazione ai fini IVA delle operazioni poste in essere dai soggetti che prestano servizi connessi al cambio di bitcoin in valute “classiche” è stata oggetto di analisi da parte delle pronunce della Corte di giustizia europea. La Corte di giustizia ha ritenuto che queste operazioni costituiscono prestazioni di servizio a titolo oneroso.

Più precisamente, secondo i giudici europei, tali operazioni rientrano tra le operazioni “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” di cui all’art. 135, par. 1, lett. e), della Dir. CEE 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, e, come tali, rientrino tra quelle esenti da IVA.

In Italia, l’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 72/E del 2016, nel richiamare la pronuncia della Corte di giustizia europea, ha statuito che tali operazioni siano esenti da IVA ai sensi dell’art. 10, primo comma, n. 3), del D.P.R. n. 633/1972.

Ai fini delle imposte dirette, l’Agenzia delle entrate considera l’operazione di cessione di token, una mera movimentazione finanziaria.

Quindi, fino alla relativa imputazione al conto economico, in applicazione ai corretti principi contabili, non autonomamente rilevante ai fini IRES.

La medesima irrilevanza viene considerata ai fini IRAP.

L’Amministrazione finanziaria ritiene che la valuta virtuale che a fine esercizio è ancora detenuta dalla società emittente dell’ICO debba essere valutata sulla base del cambio in vigore alla data di chiusura dell’esercizio, dando quindi rilevanza fiscale al «valore normale», ossia al valore corrispondente alle quotazioni delle criptovalute (in questo caso bitcoin ed ethereum), rinvenibili sulle piattaforme on line che effettuano compravendita di valute virtuali.

DISCIPLINA FISCALE ICO

Offerta al pubblico di token digitali, che presuppongono il riconoscimento di un diritto ad ottenere beni o servizi dall’emittente

Security token

Rappresentativi di diritti economici connessi all’andamento dell’iniziativa imprenditoriale

Utility token (voucher)

Rappresentativi di servizi dell’emittente o di un possibile scambio sul mercato secondario della piattaforma dell’emittente o su altre piattaforme presenti sul mercato digitale

Ai fini IVA:

  • cessioni di token, non rilevanti;
  • conversione in criptovalute esenti da IVA ai sensi dell’art. 10, primo comma, n. 3), del D.P.R. n. 633/1972.

Ai fini delle imposte dirette:

  • non rilevante, perché si tratta di una movimentazione finanziaria

2.2. Cessione di token ai privati

2.2.1. La cessione ai dipendenti e amministratori della società emittente

La cessione ai dipendenti e amministratori della società emittente è assimilabile al reddito da lavoro dipendente, con una franchigia di soli 258,23 euro, e quindi sottoposti alla ritenuta d’acconto del datore di lavoro.

2.2.2. La cessione ai privati, non legati alla società da alcun rapporto lavorativo

Nel caso di persone fisiche che, al di fuori dell’attività di impresa, detengano degli utility token, che attribuiscono il diritto di acquistare a termine servizi o prodotti, quando si realizzino sopravvenienze o redditi, questi saranno assoggettati alla tassazione prevista per i redditi finanziari di natura diversa.

Tali redditi dovranno quindi essere indicati nella dichiarazione dei redditi nel quadro RT e soggetti ad un’imposta sostitutiva del 26 per cento.

2.3. La rilevazione in bilancio delle criptovalute

Se da un lato i principi contabili ancora non si sono occupati specificamente della rappresentazione delle criptovalute in bilancio, dall’altro lato i principi generali, e in particolare quello che prevede la distinzione tra:

  • investimenti posseduti per la negoziazione e
  • quelli detenuti durevolmente,

consentirebbero una rappresentazione contabile calibrata in funzione della finalità sottesa al loro impiego.

Se le stesse sono destinate a essere impiegate durevolmente, andrebbero classificate come immobilizzazioni finanziarie, dunque valutate al costo. Mentre, in caso contrario, andrebbero classificate come asset finanziari posseduti per la negoziazione, dunque valutate al “fair value, in via similare per le disponibilità di valuta estera.

Dunque, se la finalità perseguita dagli operatori è quella di effettuare investimenti nella tecnologia blockchain e nei progetti altamente innovativi, vanno classificate come immobilizzazioni finanziarie. Si tratta di investimenti, che, per loro natura, si prestano a essere di medio/lungo periodo.

Se si seguisse il criterio indicato nella risoluzione n. 72/E del 2016, e dunque si valutassero le “criptovalute” al “fair value”, si arriverebbe a una rappresentazione in bilancio di utili non definitivi, e ad assoggettare a tassazione redditi non effettivamente realizzati, in quanto potenzialmente destinati a riassorbirsi a stretto giro, con evidenti svantaggi sotto il profilo finanziario.

Se in un esercizio al 31 dicembre si avesse un aumento di valore, si avrebbe l’emersione di plusvalenze, immediatamente seguita da un esercizio chiuso in fase di ribasso, con conseguente riallineamento al valore iniziale di acquisto: la società sarebbe obbligata al versamento di imposte sul capital gain emerso nel primo periodo d’imposta, a nulla rilevando la successiva perdita, che sarebbe al più compensabile solo con eventuali risultati positivi futuri (se si seguisse l’indicazione della risoluzione n. 72/E del 2016). In un contesto di assenza di reddito, ci si troverebbe ad anticipare un’imposta IRES a posteriori non dovuta.

La valorizzazione al “fair value è invece perfettamente calzante con l’attività svolta dagli “exchanger”, che fanno del “trading” il loro “core business” e dunque puntano a risultati di breve periodo.

Si auspica dunque che anche l’Agenzia delle entrate fornisca le indicazioni anche per le altre tipologie di soggetti che, nello svolgimento della propria attività connessa alla tecnologia blockchain, effettuano investimenti – non speculativi – in criptovalute.

OPERAZIONI CON CRIPTOVALUTE – CONTABILIZZAZIONE

Investimenti destinati alla negoziazione (risoluzione n. 72/E del 2016)

Attività finanziarie, destinate alla negoziazione, valutate al “fair value

Investimenti durevoli

Immobilizzazioni finanziarie, valutate al costo

3. Tassazione delle cessioni di criptovalute da parte di privati

Ai fini IRPEF, le valute virtuali, se detenute al di fuori del regime di impresa, possono generare un reddito diverso, tassabile secondo i principi che regolano le operazioni aventi a oggetto valute tradizionali, previsti dall’art. 67 del TUIR: può dunque rilevare ogni conversione di bitcoin con altra valuta virtuale (o da valute virtuali in euro) realizzata per effetto di una cessione a termine oppure a pronti, se la giacenza media dell’insieme dei “wallet” (portafoglio elettronico, considerato l’equivalente di un deposito tradizionale ai fini dell’art. 67) detenuti dal contribuente, ha superato il controvalore di 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi (risoluzione n. 72/E del 2016).

RICAVI DA CESSIONE DI CRIPTOVALUTE

Vendite a termine

Le plusvalenze realizzate per effetto di una cessione di criptovalute a termine costituiscono sempre redditi diversi. Di conseguenza, come tali, devono essere indicate nel quadro RT del modello Redditi PF di dichiarazione ed essere assoggettate ad imposta sostitutiva con aliquota del 26 per cento.

Vendite a pronti

Le cessioni a pronti di criptovalute non generano redditi imponibili, salvo che la giacenza “media” dei wallet complessivamente detenuti dal contribuente superi il controvalore in euro di 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta. In tale caso, va compilato il quadro RT, come previsto per le cessioni a termine.

La giacenza va calcolata sulla base del rapporto di cambio al 1° gennaio, rilevato sul sito dove il contribuente ha acquistato la valuta virtuale o, in mancanza, quello dove ha effettuato la maggior parte delle operazioni.

La plusvalenza (al netto di eventuali minusvalenze scomputabili) va dichiarata nel quadro RT, utilizzando il criterio LIFO in caso di vendite parziali, liquidando la relativa imposta sostitutiva del 26 per cento.

Il costo, se non documentabile, può essere calcolato dividendo l’importo del bonifico effettuato all’exchanger per il numero di criptovalute acquistate.

Ai fini IVAFE, in senso opposto all’assimilazione tra wallet e depositi sopra accennata, l’Agenzia precisa che le criptovalute non sono soggette a tassazione, in quanto l’imposta si applica esclusivamente ai depositi e conti correnti di natura “bancaria”.

4. Monitoraggio fiscale (quadro RW)

L’investitore in criptovaluta è soggetto all’obbligo del monitoraggio fiscale e, pertanto, è tenuto alla compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi.

In generale, i bitcoin e le criptovalute vanno monitorati nel quadro RW, se detenuti al di fuori del circuito degli intermediari residenti.

Questa l’importante indicazione contenuta in una risposta (Interpello n. 956-39 del 2018) con cui le Entrate hanno affermato che le criptovalute “devono essere oggetto di comunicazione attraverso il quadro RW”, rilasciata dalla Direzione regionale della Lombardia.

Sulla scia della risoluzione n. 72/E del 2016 (unico documento di prassi che ha assimilato le valute virtuali a quelle estere), l’Amministrazione conferma che, nel rispetto della circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E, sul monitoraggio fiscale, anche le valute virtuali ricadono nell’obbligo dichiarativo RW.

Pare ormai certo che chiunque abbia detenuto criptovalute nell’anno d’imposta dovrà interrogarsi sulla compilazione del quadro RW. Oltre a questa importante conclusione, il documento contiene precisazioni anche sui profili IRPEF e IVAFE, che lasciano invece aperti dubbi operativi anche in chiave RW.

Ci si chiede se l’obbligo di RW sussiste a prescindere dal realizzo di un reddito imponibile nel periodo d’imposta La risposta sembrerebbe essere positiva, per coerenza con i criteri di compilazione del quadro RW.

E ancora, si chiede se si applica la soglia di 15.000 euro prevista per depositi e conti correnti bancari. La risposta sembrerebbe negativa, considerata l’assenza di riferimenti espliciti nel documento e soprattutto la conclusione raggiunta ai fini IVAFE.

È questo il punto più delicato, perché, oltre agli investitori più esperti, sono molti i contribuenti che, spinti dall’onda mediatica degli ultimi mesi, hanno investito piccole somme.

Secondo l’Agenzia, il dato va indicato alla colonna 3 («codice individuazione bene») con il codice «14» («Altre attività estere di natura finanziaria»).

Il controvalore in euro della valuta virtuale, invece, va determinato al 31 dicembre del periodo di riferimento (o alla data di vendita), al cambio indicato a tale data sul sito dove il contribuente l’ha acquistata.

Dovrebbe dunque essere quanto meno consentita la stessa modalità di compilazione “semplificata”, introdotta per i dossier titoli dalla circolare 8 aprile 2016, n. 12/E.

4.1. Posizione contraria di parte della dottrina

Secondo parte della dottrina (D. Deotto), la risposta delle Entrate, però, non convince. Occorre partire dal fatto che, in base a quanto dispone l’art. 4 del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, il quadro RW del modello dichiarativo va compilato in caso di detenzione nel periodo d’imposta di “investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia”.

Se, in qualche modo, rispetto alle norme sul monitoraggio fiscale, le criptovalute possono essere considerate oggettivamente “attività di natura finanziaria”, la questione va vista sotto il profilo territoriale, considerando che si deve trattare di “attività estere”.

Le criptovalute, infatti, sono a-territoriali, non stanno né in Italia né all’estero.

Si può dire, in termini semplicistici, che le criptovalute stanno nella “rete” (di fatto, nella blockchain), per la quale non esiste né un concetto di “estero” né di territorio nazionale.

Si consideri ulteriormente la questione sotto il profilo sanzionatorio.

La norma (art. 5 del D.L. n. 167/1990) stabilisce che la violazione dell’obbligo dichiarativo è punita con la sanzione dal 3 al 15 per cento degli importi non indicati, penalità raddoppiata nel caso le attività siano detenute nei Paesi black list.

L’entità ordinaria della sanzione risulta quella dal 3 al 15 per cento e il “raddoppio” della stessa opera esclusivamente, come deroga, nella particolare ipotesi di detenzione delle attività nei Paesi a fiscalità privilegiata.

Data la loro a-territorialità, non sarà possibile individuare il Paese di detenzione delle criptovalute (se essi sono a fiscalità ordinaria o privilegiata); si applicherebbe, in caso di omessa indicazione dei coin, la penalità ordinaria dal 3 al 15 per cento del valore non indicato, con l’ulteriore conseguenza dell’inapplicabilità della presunzione di cui all’art. 12 del D.L. 1° luglio 2009, n. 78.

Una conclusione questa molto forzata. L’obbligo di indicazione nel quadro RW non sussiste, secondo parte della dottrina, ogni qualvolta la persona fisica abbia la disponibilità della chiave privata, che rappresenta il “mezzo” attraverso il quale la stessa persona manifesta la volontà di disporre delle criptovalute.

Diverso potrebbe essere solo il caso in cui il contribuente residente non abbia la disponibilità della chiave privata e si avvalga dei cosiddetti custodial wallet.

Occorre premettere che la norma esclude dall’obbligo dichiarativo del quadro RW le attività detenute all’estero, qualora i redditi derivanti da tali attività vengano assoggettati a ritenuta o a imposta sostitutiva da parte di intermediari residenti.

Cosa che, evidentemente, non avviene per le criptovalute.

Da ciò si deduce che l’indicazione nel quadro RW può sussistere solo per le criptovalute, per le quali le chiavi private sono gestite dal custodial wallet, se quest’ultimo risulta soggetto residente o domiciliato all’estero.

L’indicazione non avrebbe senso, invece, per le criptovalute gestite attraverso custodial residenti in Italia, venendo a mancare ogni legame con l’estero (anche considerando il prossimo obbligo di iscrizione presso l’OAM dei soggetti operanti in criptovalute).

In definitiva, finché la questione non verrà regolata normativamente, due sono le soluzioni che paiono più appropriate:

  • una prudenziale che vuole l’indicazione del bitcoin e
  • una più corretta normativamente, che non ne vede l’indicazione, nonostante il parere contrario delle Entrate.

Dato che il codice Paese non è più un dato necessario (si vedano Istruzioni ministeriali al modello Redditi), per la detenzione di cripto valuta è possibile omettere la compilazione della colonna 4.

Le criptovalute non sono soggette a IVAFE, come chiarito dall’Agenzia delle entrate nell’interpello n. 956-39 del 2018, pur se tali attività devono essere incluse, almeno secondo l’Agenzia, nel quadro RW per adempiere gli obblighi di monitoraggio fiscale.
Si barrerà, quindi, la casella 20, “solo monitoraggio”.

5. La criptovaluta quale oggetto di conferimento nel capitale della s.r.l.

Altra questione interessante che concerne le criptovalute è la possibilità che esse possano, in fase embrionale, costituire oggetto di conferimento nel capitale di una società a responsabilità limitata.

È possibile attribuire ab origine un valore economico attendibile al bene “criptovaluta”, per potere poi considerare tale importo ai fini di un conferimento?

Secondo la pronuncia emessa in data 18 luglio 2018 dal Tribunale di Brescia, ciò non è possibile. La questione, però, resta attuale e non si esaurisce nell’analisi dei problemi di fondo connessi all’utilizzo della moneta digitale, ma va collocata nel più ampio contesto della valutazione di idoneità delle criptovalute a costituire efficace garanzia per i creditori della società, nel momento in cui esse vanno a comporre il capitale di rischio.

In tale contesto, avuto riguardo alla funzione “storica” primaria del capitale sociale, in chiave di garanzia nei confronti dei creditori, costituiscono requisiti fondamentali di qualunque bene adatto al conferimento:

  • l’idoneità a essere oggetto di valutazione, in un dato momento storico, senza considerare l’ulteriore problematica connessa alle potenziali oscillazioni del valore del bene medesimo;
  • l’esistenza di un mercato del bene in questione, presupposto di qualsivoglia attività valutativa, che impatta poi sul grado di liquidità del bene stesso e, quindi, sulla velocità di conversione in denaro contante;
  • l’idoneità del bene a essere “bersaglio” dell’aggressione da parte dei creditori sociali, ossia l’idoneità a essere oggetto di forme di esecuzione forzata (a tale riguardo si rileva che parte della dottrina ritiene che tale requisito sia irrilevante, sul presupposto teorico secondo il quale la funzione di garanzia del capitale andrebbe letta in senso giuridico-contabile e non già materiale; tuttavia, non può trascurarsi come in ogni caso la dimensione materiale del bene recuperi valenza quanto meno sotto il profilo della quantificazione del valore economico, dovendo per ciò stesso essere oggetto di analisi).

Infine, prosegue il Tribunale, il terzo dei requisiti sopra menzionati, ossia l’idoneità del bene a essere oggetto di aggressione da parte dei creditori, deve essere chiaramente illustrato in una perizia di stima ad hoc, con espresso riferimento alle modalità di esecuzione di un ipotetico pignoramento della “criptovaluta”, oggetto di conferimento “profilo da ritenere decisamente rilevante nella fattispecie, alla luce della notoria esistenza di dispositivi di sicurezza ad elevato contenuto tecnologico che potrebbero, di fatto, renderne impossibile l’espropriazione senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore”.

Concludendo, in assenza di idonee garanzie in ordine alla possibilità per i creditori sociali di trovare soddisfazione sul bene oggetto di conferimento, circostanza che ad oggi non è avverabile per le criptovalute, il conferimento non può ritenersi legittimo.

Premesso ciò, il provvedimento del Tribunale di Brescia non esclude in assoluto la conferibilità delle criptovalute nel capitale sociale, ma si limita a censurare lo specifico conferimento sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria; ha il pregio di fornire utili indicazioni per gli operatori, ai fini dell’eventuale legittimo utilizzo di tale strumento.

La vicenda, tra l’altro, originava dal rifiuto del notaio rogante di provvedere all’iscrizione nel Registro delle imprese della delibera assembleare con cui una s.r.l. aveva aumentato il capitale sociale anche attraverso il conferimento in natura di una data criptovaluta: in particolare, il notaio aveva precisato che, in ragione della loro volatilità, le criptovalute “non consentono una valutazione concreta del quantum destinato alla liberazione dell’aumento di capitale sottoscritto”, né tantomeno di percepire “l’effettività (quomodo) del conferimento”.

L’autorità giudiziaria interpellata sul caso ha precisato che “… non è in discussione l’idoneità della categoria di beni rappresentati dalle cosiddette criptovalute a costituire elemento di attivo idoneo al conferimento nel capitale di una s.r.l., bensì se il bene concretamente conferito […] soddisfi il requisito di cui all’art. 2464, secondo comma, c.c.” e quindi se esso sia o meno suscettibile di valutazione economica.

Il bene deve soddisfare almeno i seguenti requisiti essenziali:

  • l’idoneità a costituire oggetto di valutazione in un dato momento storico;
  • la connessa esistenza di un mercato di riferimento del bene in questione, necessario per assicurarne la conversione in denaro contante e per valutarne dunque il grado di liquidità;
  • l’idoneità a divenire oggetto di aggressione da parte dei creditori sociali, mediante forme di esecuzione forzata.

Ebbene, il secondo requisito risulta non soddisfatto, in quanto “l’unico mercato nel quale la criptovaluta concretamente opera è costituito da una piattaforma dedicata alla fornitura di beni e servizi […] riconducibile ai medesimi soggetti ideatori della criptovaluta, nel cui ambito (invero assai ristretto) […] funge da mezzo di pagamento accettato: ne deriva, dunque, un carattere prima facie autoreferenziale dell’elemento attivo conferito, incompatibile con il livello di diffusione e pubblicità cui deve essere dotata una moneta virtuale che aspira a detenere una presenza effettiva sul mercato”.

Inoltre, la perizia di stima redatta ex art. 2465 c.c. evidenzierebbe due ulteriori carenze, ossia:

  • la difficile ricostruibilità dei criteri utilizzati dall’esperto per la determinazione del valore del conferimento (rilevando il Tribunale come il perito sembrerebbe essersi limitato ad aderire all’ultimo valore disponibile sul pertinente sito internet, peraltro il più alto fatto registrare dall’inizio della pretesa “quotazione”, in difetto di correttivi funzionali alla stabilizzazione del prezzo);
  • la mancata soddisfazione pure del terzo requisito, stante l’assenza di qualsivoglia riferimento alle modalità di esecuzione di un ipotetico pignoramento della criptovaluta oggetto di conferimento.

CONFERIMENTO DEL CAPITALE S.R.L. IN BITCOIN

Le criptovalute non possono costituire oggetto di conferimento nel capitale di una s.r.l.

Requisiti essenziali richiesti per il bene conferito

  • L’idoneità a costituire oggetto di valutazione in un dato momento storico;
  • la connessa esistenza di un mercato di riferimento del bene in questione, necessario per assicurarne la conversione in denaro contante e per valutarne dunque il grado di liquidità;
  • l’idoneità a divenire oggetto di aggressione da parte dei creditori sociali, mediante forme di esecuzione forzata.

Bitcoin

  • Non soddisfano il secondo requisito;
  • non soddisfano il terzo requisito (assenza di qualsivoglia riferimento alle modalità di esecuzione di un ipotetico pignoramento della criptovaluta oggetto di conferimento).

La perizia di stima, redatta ex art. 2465 c.c., deve evidenziare criteri idonei per la determinazione del valore del conferimento e non limitarsi all’ultimo valore disponibile sul sito internet.

RIFERIMENTI NORMATIVI
  • Dir. CEE 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 135
  • D.L. 28 giugno 1990, n. 167, artt. 4 e 5
  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67
  • D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10
  • Risposta a interpello 28 settembre 2018, n. 14
  • Risoluzione 2 settembre 2016, n. 72/E